Un numero fra migliaiaimgres
Da molti anni il 27 gennaio è divenuto un giorno di importanza unica per ognuno di noi. “Il giorno
della memoria”, istituito dalla legge 211 del 2000 “in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del
popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”, rappresenta un’occasione
di esercizio della memoria, e di riflessione, per tutte le componenti della nostra società. La data che
rievochiamo è quella del 27 gennaio 1945, quando i soldati sovietici dell’Armata rossa varcarono i
cancelli del campo di concentramento della Germania nazista ad Auschwitz, località oggi in Polonia,
compiendo il primo passo per rivelare al mondo le atrocità compiute lì, e altrove, dal Terzo Reich.
Per commemorare quella data e ciò che rappresenta ogni anno l’Archivio dei diari, tra le altre
iniziative che anima, offre ai lettori della sua newsletter un frammento tratto da una testimonianza
autobiografica conservata a Pieve Santo Stefano. Quest’anno la scelta è ricaduta su un passo della
memoria scritta da Giuseppe Biagi, partigiano nato a Cormons (GO) nel 1927, membro di una
formazione aggregata alla seconda compagnia del 1° battaglione Garibaldi, operativo nel Friuli
orientale e catturato dalla Wermacht alla fine del 1943.
“Una notte, più notti, tantissime notti, appariva un ufficiale delle SS dei squadroni della morte,
lo “sparviero”. Si presentava sulla porta della stube, fermandosi sulla soglia, con le gambe
divaricate, alzando e abbassando i tacchi degli stivali, quasi ritmicamente. Indossava un ampio
mantello nero, molto lungo. Gli stivali neri e lucidissimi e sul berretto dalla larga visiera – tipica
delle SS- aveva impresso un grosso teschio color argento. Nella mano sinistra impugnava una frusta
che muoveva leggermente. Restava fermo in quella posizione per alcuni minuti, scrutando i
deportati distesi sulla nuda paglia, facendo roteare i suoi occhi verdi e cristallini, poi, come fosse
preso da un raptus, avanzava calpestando i deportati, urlando ed imprecando, colpendo con furia in
tutte le direzioni con la sua micidiale frusta di coda di bue, lacerando le carni di molti deportati,
gridava come un ossesso: kaputt, kaputt ! Usciva dalla stube come un forsennato, un pazzo, o un
demone. Tutto il periodo della nostra quarantena, a notti alterne, dovevamo sopportare le sevizie
di quel paranoico criminale. Si diceva che fosse originario di Bolzano e che avesse perso il braccio
destro sul fronte russo. Nessun deportato lo vedeva durante il giorno, nonostante la sua figura
longilinea da atleta, viso ovale, naso aquilino, labbra sottili e zigomi sporgenti, molto evidenziati,
da sembrare veramente uno sparviero della morte, in quanto la stessa era segnata indelebilmente
sul suo volto.
[…] Spesso piangevo in silenzio, in qualsiasi angolo, in fila, nella conta, durante la notte, e in tutti
i posti che non potevo essere osservato; mi sembrava di rincuorarmi. Durante la notte i singhiozzi si
facevano più marcati, non solo i miei, altri piangevano, molto più anziani di me, nella nostra
intimità violentata, per i morsi della fame che picchiava inesorabile nelle pareti del nostro
stomaco. Non era facile autocontrollarsi in un mondo dove tutto ti crolla addosso e la morte è in
agguato ovunque. Un mattino al lavatoio, dopo essermi lavato a dorso nudo, nemmeno indossai la
giacca, che improvvisamente altre lacrime bagnarono il mio volto, spostandomi all’angolo per non
essere visto. Un’ombra si presentò alle mie spalle, girandomi e appioppandomi due sonori ceffoni da
farmi traballare intontito. Era il capo del blocco! Disse: sono giorni che ti osservo attentamente,
piangi sempre! L’altro giorno se c’era nelle vicinanze un SS, ti avrebbe fatto fare una brutta fine!
Hai capito!? Kaputt, kaputt! Ora basta non devi piangere più! Con forza continua: devi
assolutamente metterti in testa che sei un ragazzo ancora sano e sei appena entrato nel lager. O
superi la tua crisi o per te è la fine. Devi scordarti della tua famiglia, pensando solo a to stesso! Qui
non hai nessuno, sei solo un numero fra migliaia di altri numeri, non sei niente! Lo capisci che sei in
un campo di sterminio, come me, come tanti, e che possono ammazzarci da un memento all’altro.
Mi consegnò ancora un ceffone, andandosene piano piano con le spalle ricurve. Forse soffriva anche
lui, o forse gli avevo fatto pena”.